Il grande dei dimenticati


Vi dice qualcosa il nome Renato Castellani? A me nulla, fino a poco tempo fa. Eppure è stato un grande regista e sceneggiatore del nostro cinema, del cinema italiano dei tempi d’oro. Un regista premiato, apprezzato in parte dalla critica, ma poco noto al grande pubblico, che ho potuto approfondire grazie a una conferenza presso la mia facoltà. Mi intristisce pensare che un artista venga dimenticato, e mi sembra giusto allora ricordarlo.

Castellani nasce a Varigotti (Savona) precisamente un secolo fa, nel 1913. Dopo l’infanzia in Argentina torna per studiare a Genova, e laurearsi poi a Milano come architetto, ruolo che manterrà anche nelle vesti di regista, costruendo i suoi film con estrema perizia. Muove i primi passi nel mondo del cinema in un ambiente classico, al fianco di grandi autori come Camerini, Soldati, Blasetti e Moravia. Risale al 1941 la sua prima regia: Un colpo di pistola, film calligrafico come il successivo Zazà (1944).

Ma la fase per cui viene apprezzato è quella tra il 1948 e 1952, anni in cui si avvicina al cinema del Neorealismo e getta le basi del cosiddetto sottogenere del Neorealismo rosa. Siamo nel secondo dopoguerra, un periodo segnato nel profondo dal dolore del recente massacro, ravvivato da continui dibattiti in campo etico ed estetico. E proprio il cinema diventa punto di riferimento per la presa di coscienza, è il mezzo che riguarda davvero le masse, sollecita la passione e aiuta gli spettatori a guardarsi intorno, a capire il mondo. È il cinema neorealista che per la prima volta mostra l’Italia agli Italiani.

Castellani contribuisce a questa tendenza con la sua trilogia: Sotto il sole di Roma (1948), È Primavera (1949), Due soldi di speranza (1952). La scelta dei personaggi ricade sui giovani proletari del tempo, vittime di una società classista, e per rappresentarli egli ricerca, indaga nella realtà, tra le strade. Figure prive di morale, che ignorano il bene e il male ma presentano un’apprezzabile vitalità mentre lottano per l’esistenza; giovani che non possono fare affidamento sui genitori, figure brutalmente ostili, ma ritrovano conforto nell’abbraccio della comunità.

L’opera di Castellani non è intrisa di ideologia, tipica di molti autori del suo tempo, ma osserva il mondo con occhio nostalgico verso il passato, mantiene una visione classica: da buon architetto punta all’assetto strutturale, all’equilibrio narrativo e formale, al ritmo visivo, alla tecnica. Rifiuta una rappresentazione eccessivamente drammatica e melensa e mette in scena il senso gioioso della vita, inserisce piccole scene comiche, esalta la figura femminile, dipinge personaggi fortemente caratterizzati. Insomma traspare una simpatia verso gli esseri umani che anticipa la visione della commedia. Mancano però l’autobiografismo e la cattiveria, che lasciano spazio a un’ironia distaccata e al disinteresse per la Storia.

Dopo diversi film che si allontanano dal background neorealista, tra cui si ricorda I sogni nel cassetto (1957), nell’ultima fase Castellani si dedica allo sceneggiato televisivo girando Vita di Leonardo e Verdi (1982), produzioni di successo che dimostrano la sua apprezzabile capacità di diffondere cultura presso il grande pubblico.

Una figura curiosa e affascinante, un regista che si muove tra diverse istanze mantenendo le sue caratteristiche autoriali. Castellani infatti proviene dal cinema classico e impostato, abbraccia di traverso il Neorealismo nelle tematiche e anticipa espedienti della commedia all’italiana; il suo cinema sintetizza i passaggi e le dinamiche da un genere all’altro, permette di immergersi nel clima vivace del suo tempo e di riflettere su tematiche ancora oggi scottanti.

G.