Christine vs Kate plays Christine [doppia recensione]


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Il 15 luglio 1974 la conduttrice americana Christine Chubbuck si uccise in diretta televisiva con un colpo di pistola. Il tragico gesto ispirò Quinto Potere di Sidney Lumet e quest’anno due film presenti al Torino Film Festival: Christine di Antonio Campos, in concorso, e Kate Plays Christine di Robert Greene, nella sezione Festa Mobile.

Due film che raccontano la stessa storia con modalità estremamente differenti.

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CHRISTINE

 

Christine di Antonio Campos è un canonico biopic americano e racconta l’ultima parte della vita della Chubbuck, per svelare i retroscena del suo suicidio: l’ossessione insoddisfatta di raggiungere gli obiettivi professionali, il disprezzo per la televisione sensazionalista, l’assenza di esperienze amorose e sessuali, una profonda depressione.

Viene mostrato nel dettaglio il lavoro all’interno di una rete televisiva americana di provincia, attraverso l’aspro contrasto fra Christine, legata a un’etica incorruttibile, e il suo capo, disposto a cospargere lo schermo di sangue pur di accaparrarsi audience.

Il maggior punto di forza del film sta nella magistrale interpretazione di Rebecca Hall, che non a caso è stata premiata al Festival come miglior attrice. La Hall – attraverso un’acuta attenzione per i movimenti, i gesti, la mimica facciale – ha saputo rendere perfettamente le due anime che animavano la Chubbuck: da una parte una giornalista tremendamente ambiziosa e determinata, dall’altra una donna fragile e soffocata dalla depressione. Tutta la pellicola, a sua volta, gioca su questa continua alternanza tra momenti dinamici e scene drammatiche e introspettive, rispecchiando la nevrosi della donna. Tuttavia, molto del trascorso di Christine viene taciuto e con il procedere del film si dà sempre più importanza ai problemi psichici della protagonista piuttosto che alla sue ragioni etiche.

Al centro non c’è tanto il tratto biografico o l’evoluzione mediatica in negativo, ma l’ insuperabile estraneità della donna rispetto al mondo e agli altri esseri umani, una solitudine sofferta e obbligata.

Lo spettatore è costretto quindi a provare compassione per la protagonista e i suoi fallimenti e viene colpito dal tragico epilogo che, seppur noto, riesce a inquietare e commuovere.

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KATE PLAYS CHRISTINE

 

In Kate Plays Christine Robert Greene abbandona completamente la struttura del biopic tradizionale e sceglie una struttura narrativa assai più complessa – e interessante – quella del docu-fiction.

Nel film, infatti, non vediamo la storia di Christine Chubbuck, ma la storia dell’attrice Kate Lyn Sheil che si prepara ad interpretare Christine (in un film che in realtà non esiste), in un’angosciante operazione di ricerca ed immedesimazione.

Di grande impatto emotivo il processo di metamorfosi a cui si presta Kate per somigliare al suo personaggio: indossa la parrucca, mette le lenti a contatto per cambiare il colore dei suoi occhi, scurisce la sua carnagione. E ad ogni passo Kate sembra sprofondare sempre di più nell’angoscia di Christine, nei suoi turbamenti.

La metamorfosi, infatti, non è solo fisica, ma anche emotiva: Kate visita i luoghi della vita di Christine, tra le strade e gli edifici di Sarasota, parla con le persone che le stavano intorno, ripercorre gli eventi e le situazioni vissute dalla donna, e sembra verificarsi sullo schermo una vera e propria sovrapposizione fra attrice e personaggio. In questo modo vengono rivelati diversi retroscena che nel bopic di Campos non trovano spazio.

Il film si presenta come un’esperienza intensa, fortemente angosciante e cupa, che si interroga sulla necessità di entrare nella pelle di un’altra persona per comprenderla a pieno. Ma è un’altra la questione fondamentale: il triste bisogno di guardare la tragedia, il sangue che scorre, la morte in diretta. Chi fra gli spettatori non ha desiderato, anche inconsciamente, guardare il video di repertorio che mostra il suicidio della Chubbuck? Ed è quello che sottolinea nel monologo finale Kate Lyn Sheil, intrappolata nella sofferenza della sua interpretazione ma terrorizzata dal suicidio, anche se solamente simulato. L’attrice ripete più volte ‘Why?’.

Perché abbiamo bisogno di vedere quel proiettile che attraversa la sua testa? Non è semplice rispondere.

Il senso di angoscia crescente è veicolato anche dalla colonna sonora, dalle tinte thriller, quasi horror; come dalle numerose incursioni della voce fuori campo di Kate, che racconta la sua difficile esperienza di immedesimazione, spingendo il pubblico a un forte coinvolgimento.

I due film dialogano e si completano, per chi li ha visti entrambi sembra quasi impossibile separarne la fruizione. Ma nessuno dei due dà risposte certe in merito a una vicenda che rimane misteriosa quanto inquietante, senza dubbio attuale e ricca di spunti di riflessione.

G.

Old Stone [recensione]


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Il protagonista Chen Gang

Perdita di umanità. Questo il tema principale di Lao Shi (Old Stone), apprezzabile opera prima di Johnny Ma premiata all’ultimo Toronto Film Festival e riproposta al Torino Film Festival 2016 nella sezione Festa Mobile.

Il film segue il personaggio di Lao Shi, un mansueto tassista che disgraziatamente investe un giovane provocandogli il coma. L’uomo, martoriato dal senso di colpa, decide di soccorrere la vittima e di portarla in ospedale e da quel momento non se ne separa più, facendosi carico delle spese mediche, poiché i familiari se ne lavano le mani.

La legge cinese, per altro, si scaglia con ferocia contro chi si ferma a soccorrere la propria vittima piuttosto che darsela a gambe levate, negando la copertura dell’assicurazione; da questo paradosso del sistema si sviluppa una situazione tragica e insensata.

La necessità morale di Lao Shi di rimanere accanto al giovane non viene compresa da nessuno, a partire da sua moglie, che riduce tutto a una questione economica e non riesce ad apprezzare il suo ammirevole altruismo. E lo stesso succede con chiunque altro: l’isolamento diventa totale, irreparabile. E quando l’uomo tenta di liberarsi del peso economico la burocrazia e le complicazioni legali diventano una prigione da cui è impossibile uscire.

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Tutti i personaggi che gravitano intorno a Lao Shi rappresentano una società del tutto degradata e priva di valori, ciascuno pensa solamente al proprio tornaconto, senza riuscire a vedere il prossimo come un altro essere umano. Conta solo il denaro, unico motore che spinge all’azione, unico scopo da perseguire a tutti i costi.

La pellicola parte con uno stile realista, da scene del quotidiano, in casa, tra le strade della città, attraverso uno sguardo oggettivo sulle situazioni; mentre procedendo con la storia il dramma diventa manifesto e ci si trova di fronte a un thriller psicologico e simbolico, marcato dalla tensione crescente.

Si tratta di una vera e propria discesa negli inferi provocata dall’indifferenza e dall’emarginazione, con l’emersione della pura bestialità, palese in un drammatico scontro nel fango accentuato dall’intensità struggente della colonna sonora. Uomini come animali feroci che si azzannano per sopravvivere.

La riuscita del film sta anche nell’eloquente sguardo di Chen Gang, interprete del protagonista, che esprime con semplicità ed efficacia un’ampia gamma di sentimenti, dal dispiacere al folle istinto omicida, e chiede allo spettatore quella compassione che non riesce a trovare nella sua realtà.

Un film potente e incisivo, capace di smuovere lo spettatore e invitarlo a riflettere sulla propria umanità. Debutto senz’altro promettente per un regista da tenere d’occhio.

G.

Los Decentes [recensione]


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Iride Mockert (Belén)

Cosa si cela all’interno delle gated communities alla periferia di Buenos Aires? Lo scopriamo insieme alla stralunata Belén, che viene assunta come donna delle pulizie presso una di queste famiglie di ricconi isolati in un paradiso artificiale. Parliamo di Los Decentes, secondo lungometraggio di Lukas Valenta Rinner, dopo Parabellum dello scorso anno.

Il lavoro del regista su questa tematica parte da una base strettamente documentaristica, dall’osservazione diretta di questa realtà inquietante: parchi residenziali recintati in cui esistono solo ville di persone facoltose, impegnate tra il tennis e i cupcakes, totalmente ignare del mondo esterno. Un fondo coreano ha poi chiesto a Valenta Rinner di girare in soli sei mesi un film che mostrasse questo mondo; il regista ha accettato la sfida, e l’ha vinta.

Questo problema è presente in gran parte del globo, ma particolarmente accentuato si presenta in Argentina, dove il divario tra ricchi e poveri cresce in modo spaventoso – e se ne parla pochissimo, anche al cinema. E si parla poco, o per nulla, di chi lavora all’interno di questa realtà immacolata quanto deviata: persone sfruttate, sottoposte a controlli e perquisizioni, viste con sospetto e sdegno in quanto vengono dall’esterno, dove la gente muore di fame.

Ma tra i prati perfettamente in ordine e le ville con piscina, Belén si scontra con un’ulteriore realtà, rappresentata da una comunità di nudisti upper-class, impegnati tra sesso tantrico e meditazione, chiaramente mal sopportati dai borghesi che gli abitano accanto.  La donna entra a far parte di questo gruppo, dove sviluppa una seconda vita, che la libera dalla frustrazione e la porta alla scoperta di sé, alimentando la sua insofferenza verso i datori di lavoro, rappresentati da una donna di mezz’età tristemente vuota e da suo figlio, un giovane viziato e piagnucoloso ossessionato dallo sport.

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Il primo vanto di questo film è la protagonista, interpretata magnificamente da Iride Mockert, che veste i panni di una donna in (quasi) perenne silenzio, ma riesce a comunicare tutto con il solo sguardo spiritato, i gesti, l’andatura. Belén è una figura buffa e inquieta, quanto mai affascinante, emblema dell’insofferenza e del desiderio di rivendicazione. Diana e Juanchi, i ridicoli abitanti della villa in cui lavora, sono al centro della satira e dei siparietti comici della pellicola, che diverte e fa riflettere insieme.

Il resto dei figuranti, fatta eccezione per il goffo vigilante che fa la corte a Belén, è composto da corpi nudi, che esibiscono con orgoglio le proprie forme, i propri difetti, in una riappropriazione della spinta erotica e tribale. Il modello estetico è quello della pittura classica, come testimonia una buffissima citazione della Venere di Botticelli, che richiama la tradizione dei tableaux vivants.

L’ambiente viene descritto con estremo rigore compositivo attraverso ampie panoramiche ed inquadrature fisse e distanti, che denunciano una lacerante immobilità. Spazi aperti e verdi che sembrano prigioni e recludono allo stesso modo le due  comunità, entrambe incapaci di uscire dal proprio micro-mondo e di confrontarsi con l’esterno. Tutto questo viene comunicato da uno sguardo che rimane perlopiù oggettivo, non giudicante in maniera esplicita.

L’atmosfera sospesa e surreale viene spezzata da un finale raggelante, volutamente esasperato, che serve a sfogare tutta la tensione silenziosa accumulata durante il film e porta alle estreme conseguenze lo scontro ideologico tra i due fronti. Per questo epilogo il regista ha ammesso di essersi ispirato a If… di Lindsay Anderson, proposto al TFF 2016 tra i Cinque pezzi facili scelti dal guest director Gabriele Salvatores.

Los Decentes è un’opera  che diverte, spiazza e scava dentro.

G.

Avant les rues [recensione]


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‘Nessuno sa come sono esattamente le cose quando non le si osserva.’

Con questa citazione di Hubert Reeves si apre il film Avant les rues, opera prima della regista canadese Chloé Leriche, che si è occupata anche di sceneggiatura, produzione e montaggio.

Chloé ha fatto proprio ciò che suggerisce Reeves: ha osservato – e l’ha fatto per ben cinque anni – l’esistenza di tre comunità di Atikamekw, nativi americani nelle riserve del Québec, per poi mettersi dietro alla macchina da presa e ritrarre la loro insolita realtà. Un massiccio e appassionato lavoro di documentazione che la regista ha fatto per realizzare un’opera autentica e sincera; dopodiché sono bastati solo trentun giorni per effettuare tutte le riprese.

La ricerca di autenticità si declina anche nella scelta di utilizzare per i dialoghi la lingua della comunità, ricchissima e dotata di suoni unici, intrisa di connotazioni autoctone, che ben rappresenta il mondo degli Atikamekw. Gli attori stessi non sono professionisti, ma persone appartenenti a queste comunità, che interpretano ruoli quasi reali; il protagonista e sua sorella, ad esempio, sono fratelli per davvero, ed è una vera guida spirituale quella che appare nella film.

L’intento di Chloé non è stato tanto artistico, quanto sociale e antropologico: il film è nato per denunciare al mondo le condizioni di vita di queste comunità, dimenticate e abbandonate al loro destino, bersagliate dall’indifferenza e dai pregiudizi di coloro che gli abitano intorno. Un invito alla riflessione e alla possibilità di entrare in contatto con una cultura del tutto particolare e affascinante.

Il problema, infatti, è reale: tra questi nativi è in atto un’ondata di suicidi, provocata dall’impossibilità di trovare una ragione di vita nell’ambivalenza; a nulla serve l’intervento di psicologi in una cultura quanto mai diversa da quella occidentale, che invece nutre il profondo bisogno di riallacciarsi alle tradizioni, al contatto con la natura, come la Leriche ha mostrato in questa storia di formazione. Il genocidio culturale perpetrato contro queste popolazioni è ancora presente, così come il razzismo radicato. Il film si fa carico di una missione di sensibilizzazione e presa di coscienza.

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Siamo di fronte a uno dei numerosi coming-of-age presentati al Torino Film Festival 2016: il giovane Shawnuk è protagonista di una travagliata ricerca di identità in un non-luogo permeato da spinte contrastanti, tra il radicamento alle proprie origini e le incursioni della società dei consumi. Eloquente la rappresentazione del personaggio, vestito in stile hip-hop e attaccato al suo cellulare, ma caratterizzato da tratti somatici tipici e dai capelli lunghi, come a rappresentare il risultato di una contaminazione culturale mal digerita. Intorno al ragazzo una comunità distrutta dalla droga, dall’alcool, dal machismo, dalla mancanza di sogni e di prospettive.

Un tragico fatto accidentale fa precipitare il ragazzo in una profonda crisi esistenziale che potrà trovare rimedio solo in una drastica riscoperta della propria cultura, celata tra gli alberi della foresta, risvegliata da una guida spirituale, celebrata nei canti tradizionali.

A livello estetico non si può non apprezzare il realismo delle riprese e la fotografia, che regala una vivida rappresentazione del mondo degli Atikamekw, isolato e desolato il centro abitato, composto di spazi aperti ma soffocante come una gabbia senza via d’uscita, grandiosa invece la foresta, con la sua atmosfera di libertà e purezza. Molto apprezzabili anche i primi piani, che indagano con delicatezza e sentimento gli sguardi dei protagonisti, disorientati ma orgogliosi delle loro radici. Idilliaca e commovente la scena dell’abbraccio familiare, che tampona le ferite del dissidio interiore e dona nuova speranza.

Unica pecca: una certa debolezza narrativa con relativa mancanza di ritmo, che nega allo spettatore la facilità di un coinvolgimento costante e rischia di non dare giustizia all’importanza sociale dell’opera.

G.

Slam – Tutto per una ragazza [recensione]


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Jasmine Trica e Ludovico Tersigni

Cosa esce fuori se si prende un romanzo di Nick Hornby e lo si trasforma in un film italiano?

È la sfida che si è posto Andrea Molaioli, e il risultato è Slam – Tutto per una ragazza, presentato in anteprima allo scorso Torino Film Festival 2016, nella sezione Festa Mobile.

Alla prima erano presenti il regista e il cast principale: i giovanissimi Ludovico Tersigni e Barbara Ramella, e Jasmine Trinca, madrina del festival.

La trama del film rimane piuttosto fedele al romanzo di Hornby: Sam, un teenager che vive per lo skateboard, vuole evitare a tutti i costi l’errore che hanno fatto in gioventù sua madre e sua nonna, ma i suoi piani vanno in frantumi quando incontra la bella Alice, che sconvolge la sua vita e i suoi sogni per il futuro. Unica principale differenza: non siamo a Londra, bensì a Roma.

Il regista Andrea Molaioli, noto per Il gioiellino e La ragazza del lago, ha voluto coniugare il suo amore per le pubblicazioni di Hornby con il desiderio di raccontare la giovinezza nella capitale italiana, la sua città.

Diverse le note positive del film, a partire dai due protagonisti, che si allontanano dallo stereotipo cinematografico dell’adolescente: sono due ragazzi credibili, privi di un esasperato senso di ribellione o di particolari qualità; affrontano la vita giorno per giorno, dimostrandosi spesso e volentieri più maturi dei genitori. Il loro amore non è smisurato né idillico: si avvicinano e allontanano in modo del tutto realistico tra i problemi della quotidianità, senza eccessi di pathos e romanticismo.

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Ludovico Tersigni (Sam) e Barbara Ramella (Alice)

Il ruolo della madre è affidato a Jasmine Trinca, che impersona una figura dolce e comprensiva, pronta a sostenere il figlio in ogni momento, sorridente e complice. Una novità per l’attrice, spesso impegnata in ruoli drammatici, ma altrettanto convincente in questa interpretazione.

Da menzionare la partecipazione di Luca Marinelli nei panni del giovane e scapestrato papà di Sam, che regala alla pellicola diversi momenti di comicità e serve a far emergere per contrasto il senso di responsabilità del ragazzo. Mentre il padre vede come vantaggio del “maschio” quello di poter scappare dalle situazioni scomode, il figlio si dimostra diverso, pronto a sacrificare la sua libertà di fronte alle complicazioni.

Molaioli, come Hornby, decide di spezzare la linearità narrativa con alcuni “viaggi nel futuro”, che vivacizzano il racconto ed evidenziano il passaggio traumatico e inconsapevole dall’adolescenza all’età adulta, un passaggio che può essere comunque affrontato guardando agli aspetti positivi, senza lasciarsi trascinare dallo sconforto.

Pur essendo ambientato in Italia, il film mantiene l’universo presentato dal romanzo: la cultura underground degli skaters. L’attore Ludovico Tersigni, infatti, si è prestato a duri allenamenti per imparare a fare i trick ed è stato a contatto con molti skaters per calarsi meglio nel ruolo. Inoltre, la produzione ha riqualificato lo skatepark dove sono sono state effettuate le riprese, anche per sostenere i giovani romani che passano il tempo a fare acrobazie con le loro tavole.

E come non accennare alla voce fuori campo di Tony Hawk, che legge passi della sua autobiografia Tony Hawk (TH): Occupation: Skaterboarder, fungendo da commento e accompagnando la crescita di Sam, che spesso e volentieri si confida con il poster del suo beniamino.

Il film, commedia divertente e delicata, è un inno alla gioventù e alla sua capacità di affrontare la vita in modo speciale. Già apprezzato e applaudito alla prima dal pubblico torinese, è uscito nelle sale italiane il 23 marzo 2017.

G.

Un omaggio senza veli al cinema e alla crudeltà


Stringi stringi, siamo tutti sciacalli che si cibano l’uno dell’altro.

  
Era il 2011 e per caso acquistai Fight club in una libreria.

Non avevo visto il film, non sapevo di che parlasse, ero ignaro di tutto. Bastò qualche ora per finirlo d’un fiato, e per innamorarmi dello stile di Chuck Palahniuk.

Mi ripromisi allora di leggere tutti i suoi libri. Sono passati quattro anni e finalmente mi sono deciso ad iniziare questa piccola impresa.

Anche questa volta mi sono fatto guidare dalla casualità, senza informarmi. In biblioteca ho cercato Palahniuk e tra alcuni romanzi ho preso Senza veli, pubblicato nel 2010.

La storia si svolge nella Hollywood dei Tempi d’oro (quelli di Bette Davis e Joan Crawford) e mostra il tramonto della diva Katherine Kenton e il suo innamoramento per il giovane senza scrupoli Webster Carlton Westward III attraverso la voce di Hazie Coogan, domestica e amica della Kenton.

La prima particolarità del romanzo sta nella tecnica narrativa: la narratrice Hazie presenta le scene come in una sceneggiatura cinematografica (chiaro riferimento al mondo hollywoodiano), descrivendo l’apertura, l’ambientazione, le zoommate, i suoni, i fuoricampo.

Gli stessi capitoli sono suddivisi in atti e scene, come in una vera sceneggiatura.

A tratti questa trovata può risultare pesante, nociva a una lettura disinvolta, ma nel complesso è interessante.

Un’altra caratteristica originale – ma decisamente pesante – è la fitta sequela di nomi noti della vecchia Hollywood (e non solo) che farcisce tutto il romanzo. Un omaggio a una scintillante epoca del passato che però contribuisce a rallentare il ritmo narrativo e infastidisce a livello grafico. Infatti tutti i nomi propri – ma proprio tutti – sono stampati in grassetto.

  
Parlando di trama, la storia risulta abbastanza avvincente e i personaggi interessanti, a partire dalla misteriosa narratrice Hazie, della quale è facile intuire l’inquietante cumulo di frustrazioni, rancori, manie e desiderio di rivalsa. 

Allo stesso modo è affascinante la sua controparte Katherine, archetipo della diva che va incontro malvolentieri alla vecchiaia e al declino, e soffoca i dispiaceri inseguendo amori fasulli e giovanili (il personaggio ricorda molto la Norma Desmond del film Viale del tramonto).

L’intreccio gira intorno alla scoperta di una biografia senza veli che Webster sta scrivendo sull’amante Katherine. Una biografia che comprende già il drammatico finale…

Ne emerge uno sfaccettato ritratto del mondo del cinema, della fama, del potere e dei rapporti umani. Un mondo dove vige la regola dell’homo homini lupus, raccontato dall’autore con una forte carica satirica e situazioni paradossali.

Nel complesso un romanzo piacevole, che si fa leggere e desta alcune riflessioni, ma di certo un po’ debole e non all’altezza del miglior Palahniuk.
G.


SENZA VELI

Titolo originale: Tell all

Autore: Chuck Palahniuk 

1^ edizione: 2010

Genere: romanzo 

Voto: 6/10


I folli e divertentissimi guai di un’analfabeta sudafricana


Prendete una ragazzina sudafricana che pulisce latrine. Prendete un impiegato svedese ossessionato dal proprio re. Scorrete capitolo dopo capitolo le loro vite assurde, e non potrete che amare L’analfabeta che sapeva contare, secondo romanzo di Jonas Jonasson, autore rivelazione nel 2009 con Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve, enorme successo di vendite e già trasposto in film.

La giovane Nombeko abita a Soweto, uno squallido sobborgo di Johannesburg. Analfabeta come tanti, ha però uno straordinario talento matematico, che le permette di giocare coi numeri e le equazioni più complesse a suo piacimento. La sua intelligenza la spinge a sognare un futuro migliore, ma nel suo tentativo di fuga si imbatte continuamente in folli difficoltà. Soprattutto quando si ritrova alle dipendenze di un ingegnere (molto idiota) incaricato di progettare delle armi nucleari.

Dal Sudafrica l’avventura di Nombeko continua in Svezia dove i guai non fanno che peggiorare. La affiancano i due gemelli Holder (un’unica persona agli occhi dello Stato), la pazza ribelle Celestine, tre falsarie cinesi fin troppo sbadate, un disertore americano completamente ammattito, una contessa che coltiva patate e, ultima non per importanza, una delle bombe create in Sudafrica. Un gruppo di personaggi eccentrici e improbabili di cui ci si innamora dal primo momento e che l’autore ci fa vedere crescere e cambiare nell’arco di molti anni.

La storia, fra equivoci e fallimenti, arriva al culmine quando il 10 giugno 2007 vengono coinvolti nelle assurde gesta dei protagonisti il re e il primo ministro svedesi. E fino all’ultimo capitolo non si smette di sorridere e di fare il tifo per i protagonisti, vittime di un mondo sempre ingiusto e imprevedibile.

Una lettura particolare, grazie alla comicità degli eventi, la simpatia dei personaggi e uno stile scorrevolissimo. Un romanzo che non si preoccupa di sembrare realistico, ma prende vita in uno spazio dove tutto è possibile, simile a quello dei cartoni animati.

Eppure la trama (intricatissima) regge, gli eventi sono appassionanti, i personaggi affascinanti, i dialoghi mai banali, La follia pervade ogni scena e il divertimento è assicurato. Tra le righe c’è spazio anche per cenni di storia recente e spunti per riflettere sui tanti problemi che attanagliano la società, altro merito di Jonasson.

Consigliatissimo per gli ultimi giorni sotto l’ombrellone, ma anche per i primi giorni autunnali, quando sarà dura mantenere il buonumore,

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L’ANALFABETA CHE SAPEVA CONTARE 

Titolo originaleAnalfabeten som kunde räkna
Autore:
Jonas Jonasson (1961)
1^ edizione
Svezia 2013
1^ ed. italiana
2013
Genere
Romanzo

L’importanza di andare oltre


2014-04-25 13.54.15Uscì nel 1960 e fin da subito fu un successo grandioso: Il buio oltre la siepe di Harper Lee è un romanzo di quelli che tutti dovremmo leggere almeno una volta nella vita. Affascinato da questo libro fin dai tempi delle elementari, mi sono finalmente imposto di leggerlo, trovando le mie aspettative ampiamente soddisfatte.
Partiamo dalla trama: siamo a Maycomb, un’antiquata cittadina dell’Alabama, negli anni ’30; la piccola Scout Finch e il fratello maggiore Dem sono due orfani di madre, allevati dalla domestica di colore Calpurnia e dal saggio padre Atticus, avvocato di spicco della contea. Spensierati, i due bambini passano le giornate a giocare, e insieme al piccolo Dill (ispirato a Truman Capote, amico della scrittrice), che trascorre a Maycomb l’estate, formano uno scatenato trio. A movimentare i loro passatempi è la figura misteriosa ed evanescente di Arthur “Boo” Radley, un vicino di casa che non esce dalla sua abitazione da anni. I tre fantasticano sulle sue chiacchierate vicende passate e seppur terrorizzati vorrebbero incontrarlo, avvicinandosi pericolosamente diverse volte alla sua casa fatiscente, oltre la siepe. Ma l’uomo non sembra accogliere le loro attenzioni.
Il tempo di giocare finisce quando Atticus deve difendere in processo Tom Robinson, un onesto ragazzone di colore accusato di stupro a danni di Mayella Ewell, una ragazza bianca appartenente a una famiglia di delinquenti. Le aspre dicerie di paese e l’avversione dei più arretrati si abbattono sulla carriera di Atticus e sull’umore dei bambini, che devono fare i conti con una società gretta e ipocrita e i coraggiosi – ma scomodi – valori morali del padre. Essendo ancora in vigore la segregazione razziale, la popolazione è soggetta a posizioni contraddittorie circa l’inferiorità dei neri.

L’innocenza di Tom è  lampante, ma il colore della sua pelle porta la maggioranza dei cittadini ad ostacolare la sua assoluzione, con continue pressioni e un linciaggio contro Atticus. A nulla infatti servirà la brillante difesa di quest’ultimo, che vede condannare il cliente e il suo innato senso di giustizia. Dopo l’immenso dispiacere, rimane per i Finch l’ira di Bob Ewell, padre di Mayella, deciso a vendicarsi per le umiliazioni subite in tribunale. Sarà la presenza ambivalente di Boo Radley a risolvere e chiudere la storia ad anello, in un finale poetico e commovente.

tumblr_m1fst1g5va1rqaw6no1_1280Il titolo originale “To Kill a Mockingbird” (uccidere un merlo) si rifà a una metafora presente nel testo: uccidere un merlo, ovvero un uccello innocuo che non si ciba di granaglie, ma di larve e insetti, e canta in modo delizioso, è un grave peccato. Come è un peccato giustiziare un uomo innocente per razzismo o invadere la  delicata sfera privata di un uomo speciale come Boo. Riflessioni e insegnamenti in ogni pagina del romanzo, senza troppa retorica,  ma dimostrando le grettezze e i valori della società attraverso le azioni quotidiane e i realistici dialoghi di tutti i personaggi presenti in scena.

Decisamente efficace il punto di vista della narrazione, che coincide con la piccola Scout: in questo modo l’autrice non presenta la sua idea matura e adulta circa i temi trattati, ma catapulta il lettore di fronte ai fatti come fosse un bambino invitato a scoprire, a comprendere, a prendere una posizione sentendo tante voci diverse, spesso contrastanti. Scout e Jem crescono in fretta tra le pagine, acquistando consapevolezza sul mondo che li circonda, spogliandosi dei pregiudizi e ritrovando l’innata umanità, capace di mostrare loro la via della tolleranza. A fine lettura ho avuto l’impressione di essere cresciuto un po’ anch’io, insieme a loro.

A completare la qualità del libro, oltre alla storia avvincente e l’accorato impegno civile, contribuisce la bellezza della scrittura, caratterizzata da uno stile ricco e scorrevole al tempo stesso.

Il premio Pulitzer nello stesso anno di pubblicazione, l’omonimo film di Robert Mulligan vincitore di tre Oscar e la Medaglia presidenziale della libertà conferita alla Lee dimostrano il grande valore di questa opera. Sono passati decenni ma questa storia ha ancora molto da dirci, lo ha affermato in tempi recenti lo stesso Obama, segnalandolo come strumento culturale contro ogni razzismo e discriminazione.  I tempi sono cambiati, il rapporto con il “diverso” non abbastanza.

Mi piace pensare che chiunque legga questo libro desideri assomigliare almeno un po’ ad Atticus Finch, che sia invogliato a difendere l’emarginato di turno piuttosto che  a toglierlo di mezzo. Che si convinca ad andare oltre la siepe.

G.

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IL BUIO OLTRE LA SIEPE 

Titolo originaleTo Kill a Mockingbird
Autore
Harper Lee (1926)
1^ edizione
USA 1960
1^ ed. italiana
1960 (Feltrinelli)
Genere
Romanzo

Quattro notti tra sogno e realtà


Era una notte incantevole, una di quelle notti come ci possono forse capitare solo quando siamo giovani, caro lettore. Il cielo era un cielo così stellato, così luminoso che, guardandolo, non si poteva fare a meno di chiedersi: è mai possibile che esistano sotto un simile cielo persone irritate e capricciose?

La pratica ed economica edizione della Newton Compton, a soli € 0,99

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Così Dostoevskij, introducendoci in una Pietroburgo magica, inizia Le notti bianche, vero gioiellino della letteratura russa,romanzo breve edito nel 1848.

Narratore e protagonista assoluto il Sognatore (non ha bisogno di un nome), una figura da amare fin dalle prime righe. Un uomo che vive racchiuso nel suo angolo, trascorrendo le sue giornate a leggere e a sognare, immaginare, tessere ragnatele di fantasia nel cuore e nella mente, fino a perdere il contatto con la realtà. Mentre nei sogni vive un amore grandissimo, nella realtà egli è solo, è l’uomo più solo di Pietroburgo. Conosce a memoria gli abitanti, osserva i passanti con minuziosa devozione, ma nessuno conosce lui, uomo tanto sensibile quanto invisibile, incapace di esternare il suo affetto per quell’umanità che gli passa accanto indifferente. E la solitudine pesa di più nel periodo estivo, quando tutti abbandonano la città per andare in campagna a trascorrere le vacanze.

Il Sognatore passeggia angosciato, finché sul lungofiume scorge una brunetta immersa nel pianto. Una visione, un’epifania che cambierà per sempre la sua vita: Nasten’ka – è questo il nome della ragazza – piomba nella vita del Sognatore illuminandola e caricandola di sentimenti concreti. Per quattro lunghe notti i due si incontrano, si parlano, si emozionano, condividono i loro grandi dolori, sviluppano una meravigliosa simbiosi, seduti su una panchina, su quel lungofiume che li ha fatti incontrare. E con un mattino termina anche questo sogno, finalmente reale, e di conseguenza non idilliaco, ma con la consapevolezza di aver vissuto almeno un attimo di beatitudine.

L’accurata e poetica descrizione della città, resa irreale dalla fuga generale e dal prodigio delle notti bianche, contribuisce ad elevare il pathos e il velo malinconico di questa storia intensa e toccante. L’appassionata narrazione si accompagna ai lunghi dialoghi fra i due giovani, in bilico tra un linguaggio colloquiale ed estremamente realistico, ravvivato da pause, interiezioni, ripetizioni che esprimono in maniera perfetta i moti dell’animo, e il linguaggio raffinato del Sognatore, che spesso parla come se leggesse un romanzo.

Marcello Mastroianni e Maria Schell nel film del 1957 tratto dal romanzo, ambientato a Livorno anziché a Pietroburgo

Marcello Mastroianni e Maria Schell nel film del 1957 tratto dal romanzo, ambientato a Livorno anziché a Pietroburgo

Le notti bianche è un elogio e allo stesso tempo una critica verso la spasmodica tendenza ad evadere dal mondo reale e rifugiarsi nei labirinti dell’immaginazione. Un modo di vivere che dichiara grandezza d’animo, sensibilità, intelligenza, ma richiama inevitabilmente sofferenza, esclusione e rimpianto.

Consigliato per una lettura veloce ma assolutamente appassionante, a tratti commovente. Per i sognatori, che potranno immedesimarsi. E per tutti gli altri, che potranno capire un po’ meglio cosa si cela nella mente di chi vive nella propria interiorità.

G.

LE NOTTI BIANCHE (Romanzo sentimentale. Dalle memorie di un sognatore)

Titolo originaleBelye noči. Sentimental’ny roman
Autore
Fëdor Dostoevskij (1821 – 1881)
1^ edizione
Russia 1848
1^ ed. italiana:
1920
Genere
Romanzo breve

Una straordinaria normalità


Stoner-coverNon capita tutti i giorni di innamorarsi di un personaggio e della sua storia. Siamo continuamente circondati da uomini e donne nati dalla penna di qualcuno, ma solo pochi ci rimangono dentro, e stanno a farci compagnia come amici fedeli.

Ho amato fin dalle prime righe Stoner, protagonista dell’omonimo romanzo di John Williams, pubblicato nel 1965 quasi in sordina e riedito nel 2003, anno in cui è diventato un vero fenomeno letterario con ottime vendite, rese possibili dal passaparola di lettori entusiasti.

Williams descrive con precisione e semplicità la vita di William Stoner, un uomo decisamente comune, dalla nascita alla morte. Un’esistenza che prende il via nel 1891 a Booneville, un paesino di agricoltori nel Missouri. Il lavoro nella fattoria caratterizza la crescita di Bill, privata di particolari interessi o rapporti significativi, in una famiglia legata più dalla necessità della fatica che dall’amore.

Tutto sembra già scritto in una vita tale, ma la svolta arriva con la fine delle superiori, quando il padre propone a William di frequentare il corso di agraria all’università di Columbia, per imparare nuove tecniche di lavorazione dei campi. William è un ragazzo timido, maldestro e chiuso in sé stesso e accoglie la notizia con un misto di indifferenza e paura, ma quasi immediatamente, fatto il suo ingresso tra le mura dell’università, capisce che il suo mondo e la sua vita cambieranno per sempre.

Tra una lezione e l’altra dimentica il mondo agrario e viene completamente rapito dalla bellezza della letteratura, che diventa la sua vocazione e il suo lavoro: Stoner dedica tutta la vita all’insegnamento universitario, in un percorso fatto di alti e bassi, tra soddisfazioni, sfide e frustrazioni logoranti. Una figura estremamente affascinante, un uomo ingenuo ma dotato di grandissima umanità e passione, che col tempo riesce ad esternare agli studenti e soprattutto a sé stesso.

I personaggi che trova sulla sua strada sono altrettanto seducenti, prima fra tutti sua moglie Edith, da cui William rimane folgorato a prima vista. Tra i due si instaura un rapporto tutt’altro che idilliaco, una continua ed estenuante battaglia provocata dall’incapacità di amare di lui e dall’eterna insoddisfazione di lei. Edith è una donna confusa, lacerata tra un’educazione rigida e indolente e un insensato tentativo di emanciparsi e dare un senso al suo ruolo, in bilico tra la moglie e la pseudo – artista.

Si inserisce poi tra i due avversari la figlia Grace, una creatura speciale, legata al padre da un forte vincolo di affetto e intesa, perfidamente ostacolato dalla madre invidiosa. La bambina, che diventa l’oggetto della contesa, soffre di una disperata mancanza di equilibrio, che la porterà a perdere la sua luce.

John Williams, autore del romanzo

John Williams, autore del romanzo

La bontà e la trasparenza del protagonista, la sua pazienza stoica gli remano sempre contro, fino a fargli trovare un altro acerrimo nemico, il professor Lomax, un uomo intelligente quanto testardo che non smetterà di sminuirlo e rendergli la vita un inferno, senza che se ne capiscono mai le vere assurde motivazioni.

Unici sollievi per il povero professore gli amici: Dave, scomparso tra le schiere dell’esercito, e Gordon, sempre disposto a comprendere il suo valore e a proteggerlo. E un amore inaspettato, che gli rivelerà la più intima essenza della felicità.

“Stoner”, insomma, è una storia semplice e  piatta, una vita monotona che si sviluppa nel tempo, lentamente, senza spostamenti e veri colpi di scena, ma ciò che rende amabile questo romanzo è lo stile, che definirei perfetto: semplice, lineare e scorrevole ma allo stesso tempo ricco, elegante e intriso di verità profonde. Tra una frase e l’altra Williams riesce ad inserire piccoli dettagli che sconvolgono il senso delle azioni e danno loro un’incredibile profondità. Un libro dove i silenzi costanti contano più delle parole, un libro che emoziona, commuove. La sofferenza di Stoner diventa la nostra, le sue piccole vittorie riescono ad allietarci.

È l’animo umano che emerge tra le righe, con tutti i suoi salti, le grettezze, le contraddizioni e la meraviglia, in un ambiente affascinante: il mondo quasi surreale dell’università, un perfetto rifugio per i deboli e i sognatori, proprio come Stoner, che riesce a cogliere la bellezza in una giovane e timida Edith, nello sguardo di sua figlia intenta a disegnare, in un’opera letteraria, nell’entusiasmo degli studenti, in una calda giornata di sole.

Sullo sfondo rimangono il mondo esterno e la Storia: le guerre mondiali risuonano come un eco lontano ma allo stesso tempo sconvolgente, capace di logorare anche chi non vi partecipa direttamente; e le domande esistenziali emergono con prepotenza, pur in una vita così raccolta e monocorde.

La forza e il segreto di questo gioiello letterario stanno in un particolare fondamentale: l’autore ha sicuramente amato la sua creazione di carta e inchiostro, e questo amore traspare da ogni parola e permette a noi lettori di amarlo altrettanto.

G.

STONER

Titolo originale: Stoner
Autore:
John Williams (1922 – 1994)
1^ edizione
USA 1965
1^ ed. italiana:
2012
Genere
Romanzo