Christine vs Kate plays Christine [doppia recensione]


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Il 15 luglio 1974 la conduttrice americana Christine Chubbuck si uccise in diretta televisiva con un colpo di pistola. Il tragico gesto ispirò Quinto Potere di Sidney Lumet e quest’anno due film presenti al Torino Film Festival: Christine di Antonio Campos, in concorso, e Kate Plays Christine di Robert Greene, nella sezione Festa Mobile.

Due film che raccontano la stessa storia con modalità estremamente differenti.

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CHRISTINE

 

Christine di Antonio Campos è un canonico biopic americano e racconta l’ultima parte della vita della Chubbuck, per svelare i retroscena del suo suicidio: l’ossessione insoddisfatta di raggiungere gli obiettivi professionali, il disprezzo per la televisione sensazionalista, l’assenza di esperienze amorose e sessuali, una profonda depressione.

Viene mostrato nel dettaglio il lavoro all’interno di una rete televisiva americana di provincia, attraverso l’aspro contrasto fra Christine, legata a un’etica incorruttibile, e il suo capo, disposto a cospargere lo schermo di sangue pur di accaparrarsi audience.

Il maggior punto di forza del film sta nella magistrale interpretazione di Rebecca Hall, che non a caso è stata premiata al Festival come miglior attrice. La Hall – attraverso un’acuta attenzione per i movimenti, i gesti, la mimica facciale – ha saputo rendere perfettamente le due anime che animavano la Chubbuck: da una parte una giornalista tremendamente ambiziosa e determinata, dall’altra una donna fragile e soffocata dalla depressione. Tutta la pellicola, a sua volta, gioca su questa continua alternanza tra momenti dinamici e scene drammatiche e introspettive, rispecchiando la nevrosi della donna. Tuttavia, molto del trascorso di Christine viene taciuto e con il procedere del film si dà sempre più importanza ai problemi psichici della protagonista piuttosto che alla sue ragioni etiche.

Al centro non c’è tanto il tratto biografico o l’evoluzione mediatica in negativo, ma l’ insuperabile estraneità della donna rispetto al mondo e agli altri esseri umani, una solitudine sofferta e obbligata.

Lo spettatore è costretto quindi a provare compassione per la protagonista e i suoi fallimenti e viene colpito dal tragico epilogo che, seppur noto, riesce a inquietare e commuovere.

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KATE PLAYS CHRISTINE

 

In Kate Plays Christine Robert Greene abbandona completamente la struttura del biopic tradizionale e sceglie una struttura narrativa assai più complessa – e interessante – quella del docu-fiction.

Nel film, infatti, non vediamo la storia di Christine Chubbuck, ma la storia dell’attrice Kate Lyn Sheil che si prepara ad interpretare Christine (in un film che in realtà non esiste), in un’angosciante operazione di ricerca ed immedesimazione.

Di grande impatto emotivo il processo di metamorfosi a cui si presta Kate per somigliare al suo personaggio: indossa la parrucca, mette le lenti a contatto per cambiare il colore dei suoi occhi, scurisce la sua carnagione. E ad ogni passo Kate sembra sprofondare sempre di più nell’angoscia di Christine, nei suoi turbamenti.

La metamorfosi, infatti, non è solo fisica, ma anche emotiva: Kate visita i luoghi della vita di Christine, tra le strade e gli edifici di Sarasota, parla con le persone che le stavano intorno, ripercorre gli eventi e le situazioni vissute dalla donna, e sembra verificarsi sullo schermo una vera e propria sovrapposizione fra attrice e personaggio. In questo modo vengono rivelati diversi retroscena che nel bopic di Campos non trovano spazio.

Il film si presenta come un’esperienza intensa, fortemente angosciante e cupa, che si interroga sulla necessità di entrare nella pelle di un’altra persona per comprenderla a pieno. Ma è un’altra la questione fondamentale: il triste bisogno di guardare la tragedia, il sangue che scorre, la morte in diretta. Chi fra gli spettatori non ha desiderato, anche inconsciamente, guardare il video di repertorio che mostra il suicidio della Chubbuck? Ed è quello che sottolinea nel monologo finale Kate Lyn Sheil, intrappolata nella sofferenza della sua interpretazione ma terrorizzata dal suicidio, anche se solamente simulato. L’attrice ripete più volte ‘Why?’.

Perché abbiamo bisogno di vedere quel proiettile che attraversa la sua testa? Non è semplice rispondere.

Il senso di angoscia crescente è veicolato anche dalla colonna sonora, dalle tinte thriller, quasi horror; come dalle numerose incursioni della voce fuori campo di Kate, che racconta la sua difficile esperienza di immedesimazione, spingendo il pubblico a un forte coinvolgimento.

I due film dialogano e si completano, per chi li ha visti entrambi sembra quasi impossibile separarne la fruizione. Ma nessuno dei due dà risposte certe in merito a una vicenda che rimane misteriosa quanto inquietante, senza dubbio attuale e ricca di spunti di riflessione.

G.

Old Stone [recensione]


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Il protagonista Chen Gang

Perdita di umanità. Questo il tema principale di Lao Shi (Old Stone), apprezzabile opera prima di Johnny Ma premiata all’ultimo Toronto Film Festival e riproposta al Torino Film Festival 2016 nella sezione Festa Mobile.

Il film segue il personaggio di Lao Shi, un mansueto tassista che disgraziatamente investe un giovane provocandogli il coma. L’uomo, martoriato dal senso di colpa, decide di soccorrere la vittima e di portarla in ospedale e da quel momento non se ne separa più, facendosi carico delle spese mediche, poiché i familiari se ne lavano le mani.

La legge cinese, per altro, si scaglia con ferocia contro chi si ferma a soccorrere la propria vittima piuttosto che darsela a gambe levate, negando la copertura dell’assicurazione; da questo paradosso del sistema si sviluppa una situazione tragica e insensata.

La necessità morale di Lao Shi di rimanere accanto al giovane non viene compresa da nessuno, a partire da sua moglie, che riduce tutto a una questione economica e non riesce ad apprezzare il suo ammirevole altruismo. E lo stesso succede con chiunque altro: l’isolamento diventa totale, irreparabile. E quando l’uomo tenta di liberarsi del peso economico la burocrazia e le complicazioni legali diventano una prigione da cui è impossibile uscire.

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Tutti i personaggi che gravitano intorno a Lao Shi rappresentano una società del tutto degradata e priva di valori, ciascuno pensa solamente al proprio tornaconto, senza riuscire a vedere il prossimo come un altro essere umano. Conta solo il denaro, unico motore che spinge all’azione, unico scopo da perseguire a tutti i costi.

La pellicola parte con uno stile realista, da scene del quotidiano, in casa, tra le strade della città, attraverso uno sguardo oggettivo sulle situazioni; mentre procedendo con la storia il dramma diventa manifesto e ci si trova di fronte a un thriller psicologico e simbolico, marcato dalla tensione crescente.

Si tratta di una vera e propria discesa negli inferi provocata dall’indifferenza e dall’emarginazione, con l’emersione della pura bestialità, palese in un drammatico scontro nel fango accentuato dall’intensità struggente della colonna sonora. Uomini come animali feroci che si azzannano per sopravvivere.

La riuscita del film sta anche nell’eloquente sguardo di Chen Gang, interprete del protagonista, che esprime con semplicità ed efficacia un’ampia gamma di sentimenti, dal dispiacere al folle istinto omicida, e chiede allo spettatore quella compassione che non riesce a trovare nella sua realtà.

Un film potente e incisivo, capace di smuovere lo spettatore e invitarlo a riflettere sulla propria umanità. Debutto senz’altro promettente per un regista da tenere d’occhio.

G.

Los Decentes [recensione]


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Iride Mockert (Belén)

Cosa si cela all’interno delle gated communities alla periferia di Buenos Aires? Lo scopriamo insieme alla stralunata Belén, che viene assunta come donna delle pulizie presso una di queste famiglie di ricconi isolati in un paradiso artificiale. Parliamo di Los Decentes, secondo lungometraggio di Lukas Valenta Rinner, dopo Parabellum dello scorso anno.

Il lavoro del regista su questa tematica parte da una base strettamente documentaristica, dall’osservazione diretta di questa realtà inquietante: parchi residenziali recintati in cui esistono solo ville di persone facoltose, impegnate tra il tennis e i cupcakes, totalmente ignare del mondo esterno. Un fondo coreano ha poi chiesto a Valenta Rinner di girare in soli sei mesi un film che mostrasse questo mondo; il regista ha accettato la sfida, e l’ha vinta.

Questo problema è presente in gran parte del globo, ma particolarmente accentuato si presenta in Argentina, dove il divario tra ricchi e poveri cresce in modo spaventoso – e se ne parla pochissimo, anche al cinema. E si parla poco, o per nulla, di chi lavora all’interno di questa realtà immacolata quanto deviata: persone sfruttate, sottoposte a controlli e perquisizioni, viste con sospetto e sdegno in quanto vengono dall’esterno, dove la gente muore di fame.

Ma tra i prati perfettamente in ordine e le ville con piscina, Belén si scontra con un’ulteriore realtà, rappresentata da una comunità di nudisti upper-class, impegnati tra sesso tantrico e meditazione, chiaramente mal sopportati dai borghesi che gli abitano accanto.  La donna entra a far parte di questo gruppo, dove sviluppa una seconda vita, che la libera dalla frustrazione e la porta alla scoperta di sé, alimentando la sua insofferenza verso i datori di lavoro, rappresentati da una donna di mezz’età tristemente vuota e da suo figlio, un giovane viziato e piagnucoloso ossessionato dallo sport.

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Il primo vanto di questo film è la protagonista, interpretata magnificamente da Iride Mockert, che veste i panni di una donna in (quasi) perenne silenzio, ma riesce a comunicare tutto con il solo sguardo spiritato, i gesti, l’andatura. Belén è una figura buffa e inquieta, quanto mai affascinante, emblema dell’insofferenza e del desiderio di rivendicazione. Diana e Juanchi, i ridicoli abitanti della villa in cui lavora, sono al centro della satira e dei siparietti comici della pellicola, che diverte e fa riflettere insieme.

Il resto dei figuranti, fatta eccezione per il goffo vigilante che fa la corte a Belén, è composto da corpi nudi, che esibiscono con orgoglio le proprie forme, i propri difetti, in una riappropriazione della spinta erotica e tribale. Il modello estetico è quello della pittura classica, come testimonia una buffissima citazione della Venere di Botticelli, che richiama la tradizione dei tableaux vivants.

L’ambiente viene descritto con estremo rigore compositivo attraverso ampie panoramiche ed inquadrature fisse e distanti, che denunciano una lacerante immobilità. Spazi aperti e verdi che sembrano prigioni e recludono allo stesso modo le due  comunità, entrambe incapaci di uscire dal proprio micro-mondo e di confrontarsi con l’esterno. Tutto questo viene comunicato da uno sguardo che rimane perlopiù oggettivo, non giudicante in maniera esplicita.

L’atmosfera sospesa e surreale viene spezzata da un finale raggelante, volutamente esasperato, che serve a sfogare tutta la tensione silenziosa accumulata durante il film e porta alle estreme conseguenze lo scontro ideologico tra i due fronti. Per questo epilogo il regista ha ammesso di essersi ispirato a If… di Lindsay Anderson, proposto al TFF 2016 tra i Cinque pezzi facili scelti dal guest director Gabriele Salvatores.

Los Decentes è un’opera  che diverte, spiazza e scava dentro.

G.

Avant les rues [recensione]


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‘Nessuno sa come sono esattamente le cose quando non le si osserva.’

Con questa citazione di Hubert Reeves si apre il film Avant les rues, opera prima della regista canadese Chloé Leriche, che si è occupata anche di sceneggiatura, produzione e montaggio.

Chloé ha fatto proprio ciò che suggerisce Reeves: ha osservato – e l’ha fatto per ben cinque anni – l’esistenza di tre comunità di Atikamekw, nativi americani nelle riserve del Québec, per poi mettersi dietro alla macchina da presa e ritrarre la loro insolita realtà. Un massiccio e appassionato lavoro di documentazione che la regista ha fatto per realizzare un’opera autentica e sincera; dopodiché sono bastati solo trentun giorni per effettuare tutte le riprese.

La ricerca di autenticità si declina anche nella scelta di utilizzare per i dialoghi la lingua della comunità, ricchissima e dotata di suoni unici, intrisa di connotazioni autoctone, che ben rappresenta il mondo degli Atikamekw. Gli attori stessi non sono professionisti, ma persone appartenenti a queste comunità, che interpretano ruoli quasi reali; il protagonista e sua sorella, ad esempio, sono fratelli per davvero, ed è una vera guida spirituale quella che appare nella film.

L’intento di Chloé non è stato tanto artistico, quanto sociale e antropologico: il film è nato per denunciare al mondo le condizioni di vita di queste comunità, dimenticate e abbandonate al loro destino, bersagliate dall’indifferenza e dai pregiudizi di coloro che gli abitano intorno. Un invito alla riflessione e alla possibilità di entrare in contatto con una cultura del tutto particolare e affascinante.

Il problema, infatti, è reale: tra questi nativi è in atto un’ondata di suicidi, provocata dall’impossibilità di trovare una ragione di vita nell’ambivalenza; a nulla serve l’intervento di psicologi in una cultura quanto mai diversa da quella occidentale, che invece nutre il profondo bisogno di riallacciarsi alle tradizioni, al contatto con la natura, come la Leriche ha mostrato in questa storia di formazione. Il genocidio culturale perpetrato contro queste popolazioni è ancora presente, così come il razzismo radicato. Il film si fa carico di una missione di sensibilizzazione e presa di coscienza.

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Siamo di fronte a uno dei numerosi coming-of-age presentati al Torino Film Festival 2016: il giovane Shawnuk è protagonista di una travagliata ricerca di identità in un non-luogo permeato da spinte contrastanti, tra il radicamento alle proprie origini e le incursioni della società dei consumi. Eloquente la rappresentazione del personaggio, vestito in stile hip-hop e attaccato al suo cellulare, ma caratterizzato da tratti somatici tipici e dai capelli lunghi, come a rappresentare il risultato di una contaminazione culturale mal digerita. Intorno al ragazzo una comunità distrutta dalla droga, dall’alcool, dal machismo, dalla mancanza di sogni e di prospettive.

Un tragico fatto accidentale fa precipitare il ragazzo in una profonda crisi esistenziale che potrà trovare rimedio solo in una drastica riscoperta della propria cultura, celata tra gli alberi della foresta, risvegliata da una guida spirituale, celebrata nei canti tradizionali.

A livello estetico non si può non apprezzare il realismo delle riprese e la fotografia, che regala una vivida rappresentazione del mondo degli Atikamekw, isolato e desolato il centro abitato, composto di spazi aperti ma soffocante come una gabbia senza via d’uscita, grandiosa invece la foresta, con la sua atmosfera di libertà e purezza. Molto apprezzabili anche i primi piani, che indagano con delicatezza e sentimento gli sguardi dei protagonisti, disorientati ma orgogliosi delle loro radici. Idilliaca e commovente la scena dell’abbraccio familiare, che tampona le ferite del dissidio interiore e dona nuova speranza.

Unica pecca: una certa debolezza narrativa con relativa mancanza di ritmo, che nega allo spettatore la facilità di un coinvolgimento costante e rischia di non dare giustizia all’importanza sociale dell’opera.

G.

Slam – Tutto per una ragazza [recensione]


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Jasmine Trica e Ludovico Tersigni

Cosa esce fuori se si prende un romanzo di Nick Hornby e lo si trasforma in un film italiano?

È la sfida che si è posto Andrea Molaioli, e il risultato è Slam – Tutto per una ragazza, presentato in anteprima allo scorso Torino Film Festival 2016, nella sezione Festa Mobile.

Alla prima erano presenti il regista e il cast principale: i giovanissimi Ludovico Tersigni e Barbara Ramella, e Jasmine Trinca, madrina del festival.

La trama del film rimane piuttosto fedele al romanzo di Hornby: Sam, un teenager che vive per lo skateboard, vuole evitare a tutti i costi l’errore che hanno fatto in gioventù sua madre e sua nonna, ma i suoi piani vanno in frantumi quando incontra la bella Alice, che sconvolge la sua vita e i suoi sogni per il futuro. Unica principale differenza: non siamo a Londra, bensì a Roma.

Il regista Andrea Molaioli, noto per Il gioiellino e La ragazza del lago, ha voluto coniugare il suo amore per le pubblicazioni di Hornby con il desiderio di raccontare la giovinezza nella capitale italiana, la sua città.

Diverse le note positive del film, a partire dai due protagonisti, che si allontanano dallo stereotipo cinematografico dell’adolescente: sono due ragazzi credibili, privi di un esasperato senso di ribellione o di particolari qualità; affrontano la vita giorno per giorno, dimostrandosi spesso e volentieri più maturi dei genitori. Il loro amore non è smisurato né idillico: si avvicinano e allontanano in modo del tutto realistico tra i problemi della quotidianità, senza eccessi di pathos e romanticismo.

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Ludovico Tersigni (Sam) e Barbara Ramella (Alice)

Il ruolo della madre è affidato a Jasmine Trinca, che impersona una figura dolce e comprensiva, pronta a sostenere il figlio in ogni momento, sorridente e complice. Una novità per l’attrice, spesso impegnata in ruoli drammatici, ma altrettanto convincente in questa interpretazione.

Da menzionare la partecipazione di Luca Marinelli nei panni del giovane e scapestrato papà di Sam, che regala alla pellicola diversi momenti di comicità e serve a far emergere per contrasto il senso di responsabilità del ragazzo. Mentre il padre vede come vantaggio del “maschio” quello di poter scappare dalle situazioni scomode, il figlio si dimostra diverso, pronto a sacrificare la sua libertà di fronte alle complicazioni.

Molaioli, come Hornby, decide di spezzare la linearità narrativa con alcuni “viaggi nel futuro”, che vivacizzano il racconto ed evidenziano il passaggio traumatico e inconsapevole dall’adolescenza all’età adulta, un passaggio che può essere comunque affrontato guardando agli aspetti positivi, senza lasciarsi trascinare dallo sconforto.

Pur essendo ambientato in Italia, il film mantiene l’universo presentato dal romanzo: la cultura underground degli skaters. L’attore Ludovico Tersigni, infatti, si è prestato a duri allenamenti per imparare a fare i trick ed è stato a contatto con molti skaters per calarsi meglio nel ruolo. Inoltre, la produzione ha riqualificato lo skatepark dove sono sono state effettuate le riprese, anche per sostenere i giovani romani che passano il tempo a fare acrobazie con le loro tavole.

E come non accennare alla voce fuori campo di Tony Hawk, che legge passi della sua autobiografia Tony Hawk (TH): Occupation: Skaterboarder, fungendo da commento e accompagnando la crescita di Sam, che spesso e volentieri si confida con il poster del suo beniamino.

Il film, commedia divertente e delicata, è un inno alla gioventù e alla sua capacità di affrontare la vita in modo speciale. Già apprezzato e applaudito alla prima dal pubblico torinese, è uscito nelle sale italiane il 23 marzo 2017.

G.

American Gothic / Fight Club 2


Tra le pagine del graphic novel Fight Club 2, sequel del romanzo di culto del 1996, si trova un’affascinante citazione di un’opera-simbolo dell’arte americana del XX secolo.

Grant Wood American Gothic (1930)

Chuck Palahniuk e Cameron Stewart – Fight Club 2 (2012)
G.

Il calore stretto di un sole sulla mia schiena


“C’era un cafè, sulla quindicesima, dove andavo spesso.

Il decaffeinato non era particolarmente buono, i biscotti non erano particolarmente degni di nota, non ho ricordi precisi degli avventori, né delle persone che ci lavoravano.

Ma allora perché ci tornavo?

Credo che fosse perché esattamente dall’altra parte della strada c’era un vicolo, un vicolo stretto tra due palazzi.

Un vicolo in cui il sole d’inverno riusciva, scendendo, a infilarsi in maniera estremamente prepotente, e a raggiungere la mia schiena.

Credo che fosse solo per questo.

Per il calore stretto di un sole sulla mia schiena.

La mia prima lettura del 2017 è Il suono del mondo a memoria, graphic novel di Giacomo Bevilacqua che ritrae la singolare sfida di un fotografo tra i grattacieli di New York e le note di una vecchia canzone jazz.

Piacevole e accattivante lo stile di disegno, in particolare nella rappresentazione del paesaggio urbano; molto efficaci i colori, che richiamano le sfumature del tramonto e le sensazioni della malinconia.

La storia è semplice, minimale, ma valorizzata da un vario e potente montaggio delle tavole e dalla bellezza dei monologhi delle due voci narranti, ricchi di poesia e suggestione.

Molto consigliato agli introspettivi e ai romantici, a chi ama la solitudine ma aspira segretamente alla condivisione.

G.

‘Il sentiero dei nidi di ragno’ – Una piacevole (ri)scoperta


Tutti abbiamo una ferita segreta per riscattare la quale combattiamo.

Per anni ho avuto questo piccolo libro a casa, davanti agli occhi, senza mai sentire la curiosità di aprirlo, forse sottovalutandolo. Oggi mi ritrovo a scoprirlo e ad apprezzarlo moltissimo. Presentando la Resistenza attraverso lo sguardo distorto di un monellaccio, Calvino ci ha regalato una visione quanto mai autentica ed efficace di un Italia ferita e confusa, di un periodo cruciale che non possiamo e non dobbiamo ignorare.
G.